Recensione di Renato Civello a ‘I due volti’
“I due volti”
I libri di poesia fioriscono oggi più che mai, eppure, la poesia quasi sempre è la grande assente: ne è responsabile in gran parte il velleitarismo sperimentalistico, che dispone le parole come arabeschi o complicate architetture, con la pretesa di spazzar via il buon senso più o meno tradizionalista senza preoccupazione alcuna per la “coralità”, per una linea comunque emozionale; ma vi è anche implicata quella che io chiamerei “adiaforìa discorsiva”, un tipo di indifferenza che non ha nulla da spartire con la serenità degli stoici e che è invece disponibilità a versificare con disinvolta anonimia, fuori d’ogni profonda e maturata partecipazione. Ecco perché mi risulta non opinabile, ma sicura e totalmente avvertita, l’opera del siracusano Angelo Cianci.
Poesia di pensiero e poesia d’immagine, questa del Cianci; in cui gioca un ruolo primario il sentimento, portato sulla piattaforma delle consonanze esistenziali. Linguaggio di recupero, dunque, straniero alle pure virtualità del nuovo pericoloso conformismo: un argomentare musicalmente filtrato che riscopre i cicli primordiali del destino di sempre. Dietro l’individuo, che sedimenta la propria cronaca in una insistita voce d’amore e di dolore, l’allegoria inquietante dell’uomo totale esalta ogni sillaba in grido e dà alla macerazione il peso di una dialogante morsura. L’analisi minuta che passa attraverso gli aspetti quotidiani, dalle sequenze domestiche alle categorie delle ipotesi brucianti, diventa in Angelo Cianci persistenza meditativa e contemplativa; quasi una sintesi vibrante, e coordinata tenacemente agli impulsi, di un vitalismo interiore che non esita a farsi monito e presagio.
L’interrogativo del poeta rimane sempre condizionato dalla vita, ma anche da essa gratificato e tradotto in pienezza di sensazioni: in Solitudine Cianci scrive che avrebbe raggiunto “… quel silenzio che sfiora – l’eterno, se la cornice – di solitudine non fosse stata spezzata – dal fruscio di un ruscello, – dal soffio del vento, dalla brezza tra i rami, – dal canto di un gufo: – dalla vita, appunto”. Qui e altrove (e può essere il messaggio affidato alla rondine, la dialettica dei due volti, “uno rivolto verso il cielo – intento a scoprire segreti ed arcani, – l’altro più scaltro e beffardo – occupato a smarrire il ricordo”, i fantasmi che appaiono “nel crepuscolo incenerito”, o in Vulcano la “…correzione – di ciò che credevamo – divinamente ordinato”, il filosofare è in fondo antiteorico: di memoria leopardiana, direi, connaturato al vivere e perciò tutt’uno con il fare poetico.
Angelo Cianci avverte con un accoramento senza fine la dimensione del tempo, calata nell’io e nel sociale, segnata da tutte le contraddizioni e da mille paure. Questa è la sua filosofia, ma anche la sua inseparabile, necessaria intimazione di canto. Ora vede la donna che galoppa sul bianco cavallo e si ferma sull’orlo del precipizio, fermata miracolosamente dal suo grido; ora riflette sull’uomo contemporaneo, sulla “macchina programmata a scoprire”, ma “scoprire in un modo impietoso, – smemorato, frettoloso, – che divora se stesso”, risuscitando il mito di Kronos che divora i suoi figli. L’immagine non è riferibile ad alcuna codificazione letteraria, perché coincide, senza arbitrarie mediazioni, con l’energia generosa dell’anima.
Con questa poesia di Cianci siamo pertanto egualmente lontani dalla classicità accademizzante e dai languori tardo-romantici, soprattutto al crepuscolarismo e dall’intimismo. Le grandi esemplarità sono testimoniate con una consapevolezza che è tutta del proprio clima, della propria attitudine a percepire con tremore ed angoscia. E persino quando il pensiero, come in Eternità, affronta il problema della trascendenza con delle interrogazioni allucinate, non si registra frattura alcuna nei riguardi di un contenuto sostanzialmente poetico. Fatto è che Angelo Cianci è uno di coloro, sempre più pochi, che riescono a fare il silenzio in se stessi per ascoltare le voci che contano, quelle che fra il “tanto daffare che c’illude” di cardarelliana memoria accompagnano parallelamente gli itinerari della intelligenza e del cuore: il suo animo è “circondato – da una polvere di quiete”, come scrive l’autore con ardita espressione in L’altro mondo; ed è questa la determinazione ideale per sottrarsi all’usura della terrestrità e cercare gli alti approdi dell’essere.
Sotto il profilo stilistico è da dire che i versi di Cianci sono immuni da cultismi lessicali e che anche l’innesto della metafora, necessario in una poesia ad un tempo spontanea e pensata, contestuale e riflessa, è sempre calzante, venendo fuori da una appassionata stagione della coscienza.
Renato Civello