Recensione di Anna Curcio
Angelo Cianci sembra tendere, con questa sua ricerca poetica, al recupero di un mondo intellettuale originario, connotato soprattutto da stupore e dolore dell’esistenza. L’avvertirsi collocato senza praticabile uscita nel doppio cappio del tempo e dello spazio, non lo conduce però ad un immobile disincanto dell’esperienza, ma invece al tentativo di risalire la corrente all’indietro, fino a cercare d’individuare un possibile errore iniziale, quale potrebbe essere, in questo caso, quello di aver intricato di troppi significati “razionanti” l’immediata totalità magica dei primi apprendimenti della realtà.
L’esperimento che in queste pagine si elabora è piuttosto singolare, almeno nell’attuale quadro delle poetiche, e nonostante il timbro apparentemente dimesso e l’assenza di esiti affaticati o convulsi, non lascino sospettare in questa voce la difficoltà dell’impegno. Si tratta, nientemeno, di ripercorrere un destino vissuto male, rifiutando il soccorso di qualsiasi presupposto fideistico – ogni implicazione del “divino” va qui letta, a nostro avviso, solo in chiave di ripensamento interiore dell’esperienza – e adoperando invece strumenti ordinari, rinvenibili nella consuetudine più oggettiva, strumenti che sono quindi, in definitiva, eterogenei e raramente affidabili, e cioè le componenti di questo quotidiano contraddittorio ed estraniante pur nella sua ossessiva ripetitività, e questa intelligenza ormai aggredita dall’ossido del “già visto”.
Ma va detto subito che proprio in tale aperta denuncia del proprio bagaglio necessariamente malestro, si rintraccia la qualità fondamentale di questa poesia: l’onestà. Vietandosi di trascorrere alto sulle cose in climi illuminanti, ed esponendo anzi la routine della tristezza e del disordine, appena venata qua e là da nostalgie (o coscienza?) di una propria remota compostezza, l’autore finisce con l’approdare a qualcosa che può esser definito pacata distanza, non dall’oggi – anzi spesso puntigliosamente contrappuntato – ma da quei caratteri esasperati e divaganti dall’oggi, che lo rendono oscuro.
Un poeta che descrive le proprie emozioni, e tuttavia non lirico, né tantomeno intimista, ma, parrebbe proprio, essenzialmente votato alla chiarezza, a costo di sfrondare il discorso da presenze rilevanti e consolanti proiezioni fantastiche. E, intanto, tutto attento all’eventuale apparire di segni che possano identificare, da diverso avvio, un percorso alternativo alla nostra storia: un “come avremmo potuto essere”.
Come si rende possibile questo coesistere di amara sapienza e generosa disponibilità alla scoperta?
Già tutto vissuto, sofferto, e talvolta perfino deriso: e intanto, a mani giunte, questo attendere e indagare, questo riconoscimento dell’inconoscibile, il che equivale a ipotizzare una resa di ordine mistico, in cui parole di arcana semplicità come “cielo”, “pianto”, “stelle”, “occhi”, “giustizia”, e così via, tornino a significare rapimento e immedesimazione. Una condizione di umiltà, ma nello stesso tempo esaltante, da “primo raggio di sole sul primo filo d’erba”, è quindi il traguardo ambito, da raggiungersi solo dopo aver interamente consumato tutte le superbie della conoscenza, e mediante la volontaria adozione di questa scrittura autentica, assolutamente priva di trucchi, una rarità.
È, infine, un appassionante questione aperta, i cui termini sono del resto resi abbastanza espliciti, in quella che può essere definita un’indicazione programmatica, nel testo della poesia che dà il titolo alla raccolta:
“…………………………………….
ho visto in me due volti:
uno rivolto verso il cielo
intento a scoprire segreti ed arcani,
l’altro più scaltro e beffardo
occupato a smarrire il ricordo”.
Anna Curcio