Recensione “I doni del tempo” edizioni il Lunario

Angelo Cianci I doni del tempo

Edizioni Il Lunario, pp. 70

Qualche anno fa nel suo primo volume di poesie, intitolato emblematicamente “I due volti”, Angelo Cianci esprimeva ripetutamente in versi ora vibranti ora sommessi il suo disagio esistenziale: da una parte l’intuizione di una felicità possibile, appena celata da un ultimo velo che sembrava poter essere facilmente lacerato, se soltanto non fosse stato così dolce indugiare nel presentimento; dall’altra, il ripetersi desolante di una consapevolezza senza scampo: il tradimento operato dalla quotidianità, col suo carico di dolore, ingiustizia, incomunicabilità, sconfitta, morte. In questo modo l’autore dei “Due volti” denunciava di non sapere più quale fosse il suo volto più vero, lo specchio glieli mostrava entrambi con la stessa persuasività. E così pure gli “altri” vedevano ora questo ora quello, e quelli a lui più vicini e cari ne venivano un po’ disorientati. Perché in quei versi vi erano zampilli di gioia, lampi di scoperte entusiasmanti per la loro contagiosa evidenza e poi, alla pagina seguente, o talvolta perfino nelle ultime righe dello stesso testo, la dimessa confessione di una incapacità: l’incapacità di conciliare le opposte esperienze.

Era il recupero di una condizione emotivamente forte, quasi fanciullesca, che suscitava stupore.

Ma ecco adesso “I doni del tempo”. già, il tempo, questo imperturbabile divoratore di passioni, arbitro puntuale di tormentosi dibattiti, disinvolto solutore di enigmi. E allora, gli occhi vedono le cose non più su opposti fronti, ma tutte insieme: le mani dell’anima diventano operose, s’industriano di ricomporre il disordine e riaggiustare le cose spezzate. Non più confronti e dilemmi, ma indulgente comprensione, fin quasi alla riconoscenza, per ciò che vien dato di ricevere progredendo nell’esistenza, non dimenticando ciò che si è perduto, ma scoprendo una sua nuova collocazione bilanciata. Piccole gocce di quiete dopo la tempesta; un raggio di sole, magari uno solo e breve, una “speranza di luce”, una “bianca luce”, un “punto invisibile” al quale tendere dopo un’“offerta” e una “preghiera” (sono tra i nuovi titoli di queste nuove poesie).

È così che il tempo conduce e trascina nuove e più sottili scoperte e, appunto, trasforma le antiche angosce in “doni”. A patto che le prime siano state vissute e dichiarate. Ancora una volta, la pratica della poesia dilata i confini e scava, e innalza, lo spessore dell’esistenza.

È il tempo, visto soprattutto come crescente distanza anche dall’evento in corso, che accarezza e consola quegli affaticati poveri esseri, anche brutti, che l’autore vede danzare come “burattini”, mentre rintraccia in essi comunque la gioia, e le loro case sono povere, sì, ma anche ricche” ed essi possono dunque lasciarsi indietro la fatica di vivere. Ed è sempre il tempo che libera dalla densa nebbia di un distacco irreversibile, più che un “bagliore”, una “luce splendente”. Il tempo: esige – primordiale evocazione – d’essere fermato, perché i “momenti” non sono mai “finiti” e lo spazio è angusto. E bisogna cercare di isolare almeno “un giorno in tutto il tempo”. e l’invocazione che esso ci “rapprenda” prima della “disperazione delle cellule”.

L’angoscia non c’è più, la ribellione si trasforma in lucida accettazione, sopravviene una richiesta di complicità, mediante l’adesione al mistero, celebrata con poche parole, a volte anche spezzate, parole che quasi non si curano neppure più, d’essere “belle”.
Anna Curcio

 

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